L’amore oltre l’amore

L’amore oltre l’amore

Dall’Amor Cortese cantato dai trovatori nelle corti francesi del XII secolo, passando per la canonizzazione in epoca vittoriana, fino all’Hollywood dei giorni nostri, il sentimento amoroso si è imposto sempre più come centro della vita interiore dell’individuo, se non come una vera e propria legge fisica. D’altronde cos’è Interstellar se non un giocattolone multimilionario che mette in scena l’amor che move il sole e l’altre stelle, ultima frase della Commedia dantesca ?
Secondo questa percezione, quindi, l’Amore (mi sia permessa la lettera maiuscola) è l’obiettivo verso cui l’individuo deve tendere. Il fine massimo di ogni realizzazione personale è dedicare la propria vita all’Amore, corrisposto o meno. Si pensi al Dante della Vita Nova, al Werther di Goethe e a Solo gli amanti sopravvivono di Jarmush. Il messaggio è sempre quello: una vita senza amore non è una vita degna di essere vissuta.
Ma, accanto a questo tipo di narrazione, fiorisce e prospera tutto un corpus di opere in cui l’Amore viene depotenziato. Ovvero, dove l’uomo e il cosmo tutto non ruotano più soltanto attorno all’amore. Un po’ una sorta di rivoluzione copernicana, se vogliamo. Potremmo definirlo il Modello Parigi, citando Casablanca. Rick e Ilsa pur amandosi si dicono addio perché consapevoli che il loro amore deve passare in secondo piano. L’amore, cioè, cede il passo alla responsabilità.

Questo confronto, amore e responsabilità, è al centro di molte opere cinematografiche. In particolare, viene messa in scena la difficoltà che una simile scelta comporta. Essa infatti chiama in riferimento differenti mondi di valori: l’amore legato a un universo molto più individualistico, il senso di responsabilità, invece, a uno pubblico, condiviso.
Prendiamo per esempio Enemy di Denis Villeneuve.
L’impostazione è quella di L’uomo duplicato di Saramago, e prima ancora di Il sosia di Dostoevskij: Adam s’imbatte per caso in Anthony, un uomo identico a lui. Perfino troppo. L’idea che sia un sosia cede presto il passo all’ipotesi di un gemello perduto, per poi assumere tinte sempre più inquietanti e intrecciate sulla loro identità.
Villeneuve mette in scena una vera e propria scissione dell’io del protagonista. Adam e Anthony sono emanazioni dello stesso individuo. Ma mentre Adam è un professore di storia, represso sessualmente e personalmente, Anthony è un attore scapestrato, che non si fa problemi a cedere alle proprie pulsioni sessuali, nonostante sia sposato. In pratica, il super-io e l’es freudiani personificati. Sotto quest’aspetto Enemy deve molto al Lynch di Strade Perdute.

Per abbracciare le proprie responsabilità di marito, Adam deve letteralmente uccidere la sua controparte più primitiva ed emotiva. Anthony rappresenta tutto ciò che c’è di più istintivo e vivo in Adam, quindi le sue pulsioni più emozionali. Non è un caso che una volta ucciso, Adam sia unicamente super-io, unicamente raziocinio.
Enemy, quindi, mette in scena una lotta all’ultimo sangue fra amore-sesso e responsabilità. Scegliere significa ammazzare una parte di se stessi, menomarsi. Però, appunto, l’amore non è più una forza verso cui l’individuo deve tendere, ma viene percepito come uno dei tanti poli della vita di un uomo.
Di rinuncia e scelte è composto anche il tessuto di In the mood for love del regista di Hong Kong, Wong Kar-Wai. Qui assistiamo a due storie d’amore. La prima fra un uomo e una donna che, nonostante siano sposati, intrecciano una relazione clandestina. La seconda fra i rispettivi partner. Ma a differenza dei coniugi fedifragi, qui la loro relazione non inizia mai veramente. E’ soltanto accennata vertiginosamente, sempre annunciata, mai realizzata. M’hai detto: ti amo. Ti dissi: aspetta. Stavo per dirti: eccomi. Tu m’hai detto: vattene, potrebbe essere l’epitaffio del loro amore.
Ciò che impedisce al loro amore di realizzarsi, oltre a una struggente disfasia temporale fra i due, è principalmente l’idea di non voler essere come i propri coniugi. Noi non siamo come loro viene ripetuto diverse volte nel corso del film. Nonostante la consapevolezza di essere stati traditi e che forse l’amore per l’altro sarebbe l’amore giusto, esso passa in secondo piano rispetto a se stessi: amare l’altro significherebbe sminuire la propria dignità.

In the mood for love è l’anti-Affinità elettive. Per Goethe, l’amore poteva essere una passione così forte, così indomabile contro cui nulla può la ragione, l’intelligenza o la cultura. Tutto gli è destinato a soccombere. Per Wong Kar-Wai no. L’individuo, a grande prezzo, può e deve compiere delle scelte morali di cui la felicità non è il metro di giudizio.
Forse, tutti questi film hanno un fondo comune più ampio rispetto al singolo sentimento amoroso: l’idea che la felicità non sia la cosa più importante nella vita di un individuo. Rinunciare all’amore significa rinunciare a una felicità piena. E’ inevitabile. Lo sa il protagonista di Enemy, lo sanno gli amanti mancati di In the mood for love. Mai come ne I ponti di Madison County la tensione fra amore/felicità e responsabilità/morale è stato così forte e struggente.
L’intero dramma di Clint Eastwood può essere condensato in un’unica, straziante scena: durante un nubifragio, Francesca e il marito sono fermi a un semaforo. Nell’automobile di fronte a loro c’è Robert, l’uomo con cui la donna ha stretto una relazione segreta. Francesca è titubante, vorrebbe scendere, fuggire con lui. La mano che indugia sulla maniglia dello sportello. In appena cinque minuti Eastwood delinea tutto il dramma e la tensione che la scelta fra ciò che Francesca vorrebbe (fuggire con Robert) e ciò che è giusto fare (rimanere col marito) comportano. Ma già la presa di coscienza che ciò che si vuole è differente da ciò che è giusto fare segna un passo da cui non si può tornare indietro. Proprio questa discrepanza sottolinea l’impronta morale del confronto. Eppure Francesca decide di rimanere, di abdicare la sua felicità rispetto i suoi doveri di moglie e madre.
Ma non voglio concludere questa breve analisi del rapporto fra amore e responsabilità su una simile nota. Da una parte passerebbe l’idea erronea che questa sia una scelta sempre a perdere e sempre straziante, e dall’altra si correrebbe il rischio di infantilizzare il sentimento amoroso e di ridurlo a puro momento egotistico.

In Aurora di Murnau l’amore è un cane. Nel momento di massimo pathos, narrativo e umano, Anse sta remando con la moglie Indre verso il centro del lago per ucciderla e fuggire con una donna appena conosciuta. Ma Murnau insiste nel mostrare un cane che, furioso, si dibatte e rotta la propria catena, si tuffa in acqua verso la coppia. Non vi sono ragioni narrative per una simile scena. Eppure, Aurora e l’amore sono contenuti totalmente in questo momento. Murnau concretizza nella figura del cane l’Amor Cortese e le responsabilità, umane e matrimoniali, dell’uomo, che rifiutano di cedere. Bensì lottano e inseguono Anse. Murnau, in questo momento, non solo sintetizza i due poli del sentimento amoroso, ma ne dà un’immagine anche panteistica, con l’amore che si fa natura, in armonia con il cosmo. Non a caso il bacio di riappacificazione fra Andre e Ilse avverrà in un montaggio congiunto di città e natura. Un amore, quello di Aurora, al contempo umanista e cosmologico, proprio per il fatto di racchiudere in se stesso sentimento e ragione, passione e responsabilità.
Possiamo notare, quindi, che accanto alla narrazione del sentimento amoroso come cardine, esiste tutta una tradizione in cui l’amore non è mai il fine o la determinante finale, bensì dove esso è una scelta, spesso morale, umana sempre. Una scelta che s’inserisce all’interno di una narrazione umanista, il cui vero centro non è mai il sentimento in sè, ma il processo di scelta: ovvero l’uomo.

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pubblicato su rivistaunaspecie.com

45 anni, la recensione

45 anni, la recensione

Andrew Haigh, dietro un impianto da film drammatico, firma con 45 anni uno degli horror più potenti degli ultimi anni.

45anni_poster-210x30045 anni è un film di fantasmi. Proprio nella settimana in cui Kate (Charlotte Rampling) e Geoff (Tom Courtenay) dovrebbero festeggiare i quarantacinque anni di matrimonio, l’uomo riceve una lettera dalla Svizzera: è stato ritrovato in un ghiacciaio il corpo intatto di Katya, la sua prima fidanzata, dispersa durante un’escursione negli anni ’60. Proprio come una sorta di rituale per evocare gli spiriti, da questo momento in poi la presenza di Katya si farà sempre più ineludibile, fino alla materializzazione vera e propria.

Haigh decide di concentrare quasi tutta l’attenzione su Kate. Se, infatti, Geoff alla notizia del ritrovamento del suo primo amore appare scosso, come comprensibile, è la moglie quella che vede il mondo franare sotto i propri occhi. Mentre le certezze di Geoff rimangono fondamentalmente invariate, sono quelle di Kate a vacillare e a doversi rimodellare attorno alla scoperta quasi insostenibile che il marito abbia amato qualcun’altra prima di lei. Ovvero, è Kate a dover confrontarsi con il fantasma di Katya.

45 anni è, fin dal titolo, anche un film sullo scorrere del tempo, come in parte lo era stato il film precedente di Haigh, Week End. Ma se in esso il tempo era fugace, qui è come raggrumato. Molti sono i riferimenti, fra anniversari, orologi e corpi intatti. La stessa Katya è un’emblema di questa persistenza, prima presente soltanto nei racconti di Geoff, poi man mano sempre più materiale e concreta. E quindi pericolosa. Se in Week End l’amore nasceva e moriva nell’arco di appena due giorni, qui Kate si trova di fronte alla domanda agghiacciante se quaranticinque anni sono stati abbastanza per farsi amare da Geoff.

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Ovviamente, grande merito va alla Rampling e a Courtenay nel riuscire a delineare, senza eccentricità o macchiettismo, la psicologia dei loro personaggi. La recitazione di Courtenay è molto fisica e gestuale, spesso con movimenti quasi sconnessi e titubanti, ottimi a rendere lo spaesamento di Geoff. Quella della Rampling, invece, si basa molto sul parlato, sul non detto. Molte frasi sono lasciate a metà, iniziate con un “eppure” e non continuate, lasciando intravedere sotto la superficie qualcosa, senza il bisogno di urlarlo. 45 anni vive di silenzi e sussurri.

È questo un film doloroso, ma al contempo delicato. Non vi è alcun voyeurismo nella regia di Haigh, nessuna morbosità o ricatto. Anzi. Spesso le inquadrature sono distanti, c’è sempre una persona o un tavolo di distanza fra lo spettatore e i due coniugi. Anche la messa in scena, curata e realistica, concorre a determinare una quotidianità e familiarità verso la vita di Geoff e Kate. Rendendo tutto più umano e spaventoso. La brumosa Inghilterra settentrionale è il luogo perfetto per questa storia di fantasmi sospesi in un non-tempo.

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Dopo Week End, Haigh torna a firmare un altro piccolo e doloroso film. 45 anni, infatti, fa della semplicità il suo punto di forza. Una semplicità, però, tutt’altro che rassicurante, ma che anzi mostra l’orrore e la fragilità dietro i più ordinari rapporti umani. E che lascia Kate e lo spettatore con una domanda insostenibile: si può veramente vivere con i fantasmi delle persone che amiamo?

pubblicato su darksidecinema.it

Sopravvissuto: The Martian – Recensione

Sopravvissuto: The Martian – Recensione

In breve…

L’astronauta Mark Watney (Matt Damon), creduto morto dopo un incidente, viene abbandonato su Marte dal suo team di ricercatori. Dovrà cercare di sopravvivere per 4 anni in attesa della missione di salvataggio non autorizzata. Sopravvissuto – The Martian, il miglior film di Ridley Scott degli ultimi anni, è tutto qui. Sorprendentemente lineare si rivela presto una sentita apologia del senso di solidarietà umano, mascherata da dramma spaziale. Senza troppi scossoni, riesce comunque a intrattenere e a tenere sufficientemente con il fiato sospeso lo spettatore.martian-gallery2-gallery-image_0

Dilungandoci…

Se la saga di Prometheus può essere definita horror metafisico, The Martian  è l’altra faccia della medaglia, come una sorta di commedia umana.

Il nuovo “colossal” di Ridley Scott, infatti, è fondamentalmente un film positivo e ottimista, nonostante le angoscianti premesse. Non viene mai lasciato spazio, se non minimale, alla disperazione e alla solitudine di essere sperduti a milioni di chilometri dalla Terra, unica forma di vita su Marte. Questo perché il personaggio di Mark non è mai effettivamente solo. L’umanità è un unicum, legata da una fondamentale solidarietà comune, tanto che nel finale il ruolo di Mark, l’eroe del film, sarà decisivo ma marginale. La sceneggiatura di Drew Goddard quindi è tesa a rendere massima la simpatia dello spettatore nei confronti di Mark, cercando di evitare ogni pietismo. Se da una parte evita di mostrarci momenti di sconforto e di autocommiserazione, mettendo in luce continuamente la costante voglia di fare e di non arrendersi dell’astronauta, la sua umanità emerge grazie alle sfuriate di Mark dai forti toni umoristici, ma insofferenti, a favore delle telecamere di sicurezza, parlando direttamente con lo spettatore.

Lo stesso scopo hanno i vari sketch, al limite dello slapstick, si veda ad esempio il momento dell’esplosione nel laboratorio o il suo balletto a suon di disco music. I toni e la regia di Scott, eccezion fatta per la scena iniziale e finale, sono più quelli di una commedia che di una dramma fantascientifico. Il ritmo è sempre piuttosto frizzante e sostenuto. Si gioca molto con i colori iconici dei diversi pianeti per sottolineare il contrasto, così la fotografia della Terra è virata al blu, quella di Marte al rosso, mentre gli ambienti scientifici sono dominati dall’asettico bianco. Purtroppo in alcuni punti la fotografia è piuttosto scura, probabilmente per colpa di un 3d che, in fondo, non aggiunge molto. Non vi è mai un effettivo senso di meraviglia o di immersività nei paesaggi alieni, anche per stessa volontà di Scott.  Se, quindi, il centro di The Martian è l’umanità, i suoi legami e l’idea che nessuno viene abbandonato, paradossalmente proprio nei personaggi sta uno dei limiti del film.

Decisamente troppi e ridondanti. Di diversi personaggi ci si chiede l’effettiva utilità e se, in fondo, non potessero essere sintetizzati in un numero ben minore. Ad esempio l’astrodinamico Rich Purnell, interpretato da Donald Glover, la cui introduzione rende prevedibili gli esisti di uno dei pochi momenti di climax narrativo del film. Spiace inoltre anche perché molti sono affidati a bravi attori per niente valorizzati, come McKenzie Davis, Kate Mara e in parte perfino Jessica Chastain.  Ma sarebbe ingiusto concludere la recensione su questa nota negativa, considerando che, comunque, The Martian è un film solido e che convince. La bontà di Scott e la speranza di una sua rinascita creativa, anche in vista di Alien: Paradise Lost, può essere ben esemplificata dalla scena in cui Mark affila dei crocefissi per creare degli inneschi utili al suo orto, creando biblicamente la vita su Marte.

Vero e proprio manifesto metafisico in trenta secondi.

pubblicato su 35mm.it

Escono dalle fottute pareti

Escono dalle fottute pareti

[NOTA: Questo articolo vuole analizzare l’importanza e la percezione della penetrazione della quarta parete cinematografica. Letteralmente. Ovvero, concentrarsi nel momento in cui un personaggio, all’interno del film, attraversa lo schermo. Gli estratti qui proposti si riferiscono unicamente alle parti più generali e conclusive, lasciando fuori l’analisi dettagliata delle scene dei film presi in considerazione (“L’Arrivée d’un Train à La Ciotat”, “Le Comiche”, “Sherlock Jr”, “The Ring”, “The Canal”, “Poltergeist”, “Space Jam”, “Come d’Incanto”, “La Rosa Purpurea del Cairo”). ]

[…]

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Incontri ravvicinati con la quarta parete

Per quarta parete si intende il muro immaginario, eppure apparentemente invalicabile, che separa i personaggi (teatrali, cinematografici, ma anche letterari) dagli spettatori. Mentre nel caso del teatro, la compresenza di attori e spettatori rende questo muro essenzialmente concettuale, nel caso del cinema, la quarta parete diventa (anche) una distanza spaziale e temporale, mancando l’effettiva compresenza fisica fra personaggi e spettatori. Romperla, quindi, non è più solamente un’azione intellettuale, ma diventa, nel cinema, anche, una vera e propria azione fisica, un’invasione dello spazio ontologico dello spettatore.

Ma la quarta parete non nasce spontaneamente con il cinematografo. Infatti, riprendendo la storia mitizzata di “L’Arrivée d’un Train à La Ciotat“, e la reazione terrorizzata dei suoi spettatori, si nota come vi fosse la convinzione di una loro compresenza spaziale e temporale con la locomotiva: era lo stesso qui e lo stesso quando. D’altronde tutte, o quasi, le prime pellicole cinematografiche, dai Lumière a quelle di Mèlies, da Williamson a Porter, erano caratterizzate da quest’illusione di compresenza. Tutte pellicole, in cui era centrale il mostrare, più che il raccontare. Pellicole che vivevano di attrazioni, che avevano lo scopo di ammaliare il pubblico, facendo ingoiare la cinepresa ad un passante, ingigantendo teste mostruose, o, semplicemente, mostrando luoghi distanti come Venezia o l’India. Non vi era un’effettiva volontà di codificare, in queste pellicole, una distanza fra filmato e spettatore. La (presunta) compresenza ne era, appunto, cifra caratterizzante, proprio perché centrale era l’attrazione in sé.

Questa volontà di distanza nasce solo quando il cinema passa da puramente attrattivo ad un cinema della narrazione, verso la metà del primo decennio del Novecento. Infatti, affinché lo spettatore possa illudersi che quello che vede sia una storia reale, ovvero che ne sia assorbito, la cinepresa deve scomparire, ovvero deve essere assorbita anch’essa. In tutto il cinema attrazionale, infatti, vi era la consapevolezza della cinepresa, sia da parte dei personaggi (che in alcuni casi, sarebbe anche più corretto definire persone riprese), che degli spettatori. L’assorbimento dello spettatore e della cinepresa è reso possibile dalla codificazione di una grammatica cinematografica.

Primo passo per la strutturazione di un linguaggio cinematografico è quello di delimitarne lo spazio, delimitare, ovvero, il raggio d’azione di tutte le nuove tecniche, più o meno visibili, che dovranno essere attuate. Un raggio d’azione che però non è semplice ipotesi lavorativa, ma delimita anche ciò che, effettivamente, esiste su schermo. Si lavora, perciò, sull’inquadratura, che nel cinema narrativo non è più solo un quadro al cui interno si svolge l’intera azione, come nelle prime pellicole, ma diventa parte di un linguaggio più complesso. Proprio il fatto che un’inquadratura non si esaurisca in sé e per sé, rende necessario che sia codificata spazialmente, oltre che temporalmente. In entrambi i casi, vale il concetto di contiguità. Banalmente: se un personaggio esce a sinistra, nell’inquadratura successiva, dovrà rientrare a destra, per dare l’idea, allo spettatore di continuità d’azione, di fluidità del movimento. Ecco, così, che il montaggio diventa invisibile, (anche) grazie alla permeabilità delle pareti laterali dell’inquadratura.

Differente statuto hanno, in parte, le due pareti longitudinali. Esse hanno un carattere prevalentemente limitativo, molto meno permeabile. Infatti, sia la parete di fondo che quella frontale svolgono un ruolo particolare. La parete di fondo pone un confine all’azione (e all’esistenza), non solo, del personaggio, ma anche alla messa in scena tutta. La parete frontale, a sua volta, usata raramente per raccordare due inquadrature contigue temporalmente e spazialmente, segna, ad un livello concettuale un cambiamento di status ontologico fra realtà cinematografica e realtà dello spettatore.

Questo statuto di separazione può essere messo in discussione sia in modo diretto, con, per esempio, lo sguardo in camera da parte del personaggio, o il suo rivolgersi allo spettatore, sia in modo indiretto, rielaborando il rapporto fra cinema – quarta parete – spettatore, mostrandone su schermo la trasgressione e la rottura.

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Ierofanie

I film di genere horror, proprio per la loro caratteristica ricerca di turbamento, privilegiano una rappresentazione particolarmente tesa della penetrazione della quarta parete. Il passaggio, quindi, da una realtà immateriale come quella filmica, ad una realtà ben più concreta, realistica, diventa un vero e proprio momento di terrore ancestrale.

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Possiamo notare come alcuni elementi siano ricorrenti nella rappresentazione horror. In particolare:

  1. L’inquadratura laterale nel momento della penetrazione per sottolineare il passaggio dalla bidimensionalità alla tridimensionalità;
  2. La prima cosa a penetrare sono gli arti, proprio per una loro caratteristica estensiva rispetto il corpo;
  3. Largo uso di campo-controcampo, da una parte per permettere una maggiore identificazione nello spettatore, e dall’altra per aumentare l’angoscia per il non sapere cosa stia succedendo;
  4. La lotta fra realtà è sottolineata dal rapporto  belligerante fra suoni, in particolare fra suoni intra-diegetici e extra-diegetici, con i primi che soccombono, inevitabilmente, nel momento della penetrazione.

La penetrazione della quarta parete, però, acquista un ruolo così dirompente e paralizzante per lo spettatore, anche per un altro motivo. Tutti questi accorgimenti, infatti, servono a ritualizzare il passaggio tra due realtà separate, come già detto, ma, non basta: queste due realtà sono realtà separate anche sul piano qualitativo. Apparentemente una subordinata all’altra (la realtà filmica subordinata a quella reale), ma a un’analisi più attenta, la distinzione è fra realtà, cosiddetta, mondana e realtà rimossa. La penetrazione della parete è così un rituale di ribaltamento del rimosso che torna, traumaticamente, a galla, o meglio, che invade tragicamente la realtà mondana.

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Ciò che è all’interno dello schermo può essere inteso come sacro, in quanto, separato dalla realtà mondana e profana. Separato non solo fisicamente e spazialmente, ma ontologicamente. I piani di realtà sono diametralmente opposti e inconciliabili. Riprendendo gli stilemi con cui è rappresentata questa penetrazione, ovvero la ripresa laterale dello schermo, le mani, il campo-controcampo e la musica, esse diventano degli stilemi ritualistici per rappresentare il miracolo della ierofania, ovvero la manifestazione del sacro nel profano: l’inquadratura laterale sottolinea il passaggio dal sacro al mondano, dalla bidimensionalità ultra-terrena alla tridimensionalità terrena; le mani, ovvero il passaggio graduale, sono la lenta concretizzazione di ciò che non è concreto, la sua solidificazione; il campo-controcampo assume, quasi, il ruolo di epifania per l’individuo che si trova di fronte all’orrore e alla perversità del sacro; la musica diventa il campo di battaglia e di preveggenza del soccombere di una realtà rispetto l’altra. Il sacro all’interno la dimensione orrorifica diventa demoniaco. Così, la penetrazione della quarta parete, in queste pellicole, assume connotati sanguinari e violenti. Un vero e proprio incubo ad occhi aperti.

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Ma, personaggi che escono dallo schermo non sono una prerogativa unicamente dei film horror. Anzi. Non va, infatti, identificata la penetrazione della quarta parete con l’orrore e la morte Anzi. Non va, infatti, identificata la penetrazione della quarta parete con l’orrore e la morte. Bensì con un più generale contatto fra due dimensioni differenti, apparentemente inconciliabili.

Non di solo horror vive l’uomo

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Nella scena [in cui Tom Baxter, personaggio cinematografico, penetra nel mondo reale] di “The Purple Rose of Cairo”, tutti questi elementi vengono virati verso una rappresentazione molto più conciliante:

  1. L’inquadratura, nel momento della penetrazione, è frontale allo schermo. Il passaggio, così, dalla bidimensionalità alla tridimensionalità è attutito e appiattito. La differenza di status è sottolineata più dal cambio di colore di Tom Baxter, che da una sua invasione;
  2. E’ l’intero corpo di Tom Baxter a farsi avanti e attraversare lo schermo, non più solo gli arti, come podromi ansiogeni di un’invasione prossima ventura;
  3. Nel momento in cui Tom Baxter penetra nel mondo reale non vi è un campo-controcampo con Cecilia. Lo spettatore, così, non assiste alla sua reazione (forse) terrorizzata e non percepisce il terror panico come l’emozione “corretta” da provare. Ma ciò che vede è la reazione, comica, di una signora inamidata. Così, il passaggio di Tom Baxter non risulta scioccante o spaventoso, proprio per la mancanza di un contrappunto di Cecilia. Ma, anzi, ne viene depotenziata la carica disturbante con una reazione particolarmente umoristica.
  4. Dialogo sul piano sonoro. Sia per quanto riguarda i personaggi sullo schermo e nella platea, sia per quanto riguarda l’accompagnamento musicale, che rimane sullo sfondo ed è un conciliante motivo jazz. Sia nei film precedenti che in “The Purple Rose of Cairo”, si assiste ad una penetrazione di un mondo Altro all’interno del mondo ordinario. In entrambi, inoltre, questo mondo Altro ha una dimensione sacrale, che nel genere horror assume un connotato demoniaco, mentre in “The Purple Rose of Cairo” una dimensione più confortevole.

La differenza sostanziale della penetrazione della quarta parete sta, fondamentalmente, nel momento del contatto fra le due dimensione di realtà. Mentre, infatti, nelle pellicole horror, questa carica demoniaca rimane intatta, ed, anzi, ha il sopravvento sulla realtà, ben più debole, ordinaria, che è destinata, così, a soccombere letteralmente, in “The Purple Rose of Cairo” essa viene depotenziata e scaricata.

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Brevi appunti conclusivi

Ripercorrendo brevemente i diversi film analizzati, si può notare come ciò che li accomuna nella rappresentazione della penetrazione della quarta parete, sia essa declinata in chiave horror, comica, fantastica o romantica, è l’idea che, all’interno dello schermo, vi sia un mondo indipendente dal mondo ordinario, che, proprio per questa sua contrapposizione ad una realtà mondana e terrena, è stato qui definito come sacro.

Si riflette, quindi, metabolizzandolo e spettacolarizzandolo, il rapporto fra spettatore e cinema. Con l’introduzione della quarta parete si è creata una scatola chiusa, ma trasparente, che permette allo spettatore di guardare l’universo al suo interno. Grande importanza in questa determinazione concettuale ha avuto anche la codificazione del cinema classico di Hollywood degli anni ’30, in cui tutto è teso al massimo sforzo per celare l’aspetto artificiale di ciò che accade, dove la parola d’ordine è la trasparenza della messa in scena e la coerenza. Questo fa sì il film si stacchi definitivamente dallo spettatore sul piano ontologico, andando a vivere una propria dimensione, in cui, appunto, lo spettatore potrà sbirciare attraverso la finestra dello schermo.

Questa separazione avviene nel momento in cui il cinema, accettata la sua impossibilità di un hic et nunc con lo spettatore, ne fa la sua cifra di definizione. Ciò che avviene all’interno della pellicola, oltre lo schermo, non è più lo stesso qui e lo stesso quando dello spettatore, com’è nel teatro, ma, quello del film diventa un Altro Dove e un Altro Quando, che solo per incidenza, differita e asincronica, dello sguardo dello spettatore, coincidono temporalmente. La Quarta Parete, quindi, diventa non più soltanto una pura idea concettuale, bensì una vera e propria barriera fra mondi e dimensioni. Superarla è perturbante, romperla mostruoso.

Non è un caso che, fin dagli anni ’30, si assista a ondate cicliche di nascita-abbandono-rinascita del 3D. Si può considerare, in un gioco di rimandi, come data simbolo dell’inizio di questi tentativi, il 1933, e la proiezione di una nuova versione di “L’Arrivée d’un Train à La Ciotat”, girato sempre dai Fratelli Lumière, ma, questa volta, in 3D. Il cinema in 3D, in tutte le sue forme e varie età dell’oro, si è sempre caratterizzato con delle pellicole di genere, spesso horror o fantascientifico, che utilizzavano, e utilizzano, la possibilità della terza dimensione per far avvicinare oggetti o personaggi allo spettatore, per minacciarlo, divertirlo o sorprenderlo. Il 3D, quindi, ha sempre giocato con l’elasticità della quarta parete, cercando di tenderla il più possibile, dando l’illusione che si sarebbe rotta, e il treno avrebbe finalmente travolto gli spettatori. E’ interessante notare, a questo proposito, come molte delle inquadrature e delle sequenze tipiche di una pellicola in 3D contemporanea siano riscontrabili in pellicole ben più vecchie, come ad esempio il continuo far uscire le canne del fucile verso lo spettatore, facendone sentire tutta la minaccia e l’invadenza, o il far muovere velocemente la pallina d’un rimbalzino dentro e fuori lo schermo, sottolineando la potenzialità della terza dimensione. Il 3D rappresenta, a questo proposito, l’anima più profondamente attrattiva del cinema, quella che animava le vecchie pellicole di Meliés e del cinema di inizio ‘900. L’idea era, ed è, quella di stupire lo spettatore, ammaliarlo, spaventarlo, divertirlo più con la tecnologia in sé, che con la storia. Di nuovo, con il 3D, torna centrale in sé il cinema, più che il film. Ciò che interessa sono le cose che escono, non quelle che rimangono all’interno dello schermo.

E’ proprio questo, probabilmente, il limite di un 3D che sfrutta unicamente la possibilità di estendersi oltre la quarta parete. La sensazione di perturbamento e sorpresa dello spettatore nel vedere avvicinarsi a sé oggetti e personaggi che crede relegati ad un’altra dimensione ontologica, e che, invece, sembrano invadere il proprio spazio di realtà declassa, velocemente, a monotonia. La ripetizione, ovvero, rende il perturbante familiare. Penetrare, o meglio minacciare di penetrare, ripetutamente la quarta parete lo rende soltanto fastidioso, come un bluff scoperto. Così, ciò che in una pellicola horror risulta spaventoso, in una romantica affascinante, in una comica divertente, ovvero la sovversione dell’ordine ontologico costituito, con la separazione data e assiologica fra realtà e filmico, nella continua ripetizione di finte penetrazioni, finte invasioni e ancor più finti ribaltamenti, diventa agli occhi dello spettatore soltanto un mero numero da prestigiatore, dichiaratamente falso, e di cui, per di più, si conosce già il trucco. La normalizzazione uccide il perturbante.

Si passa, così, dalla scelta dei fratelli Lumière di filmare l’arrivo del treno alla stazione traslato di circa 45 gradi verso sinistra per evitare che lo shock sia tanto forte da turbare gli spettatori, ad un cinema, quello 3D, che proprio di questo turbamento ne cerca di fare cifra stilistica, scadendo miseramente nell’ovvio. Infatti, non va dimenticato come sia fondamentale nel momento della rappresentazione della penetrazione della quarta parete nelle pellicole analizzate, la forte unicità del momento di ribaltamento fra i rapporti di forza fra le due realtà. Tutto il film è, infatti, incanalato verso quel momento di terror panico puro. Il rituale della fuoriuscita acquista una propria forza soltanto se caricato di tutto il contrasto fra le due realtà, le cosiddette sacra e mondana. Il contrasto è tale, quindi, solo nel momento in cui le due realtà sono separate da una parete, come quella fra schermo e spettatore, che ne indica la differenza ontologica e ne limita l’esistenza, non solo in relazione a ciò che si vede, ma dell’universo stesso di definizione. Nel momento in cui, come nel cinema 3D, questa parete viene, non soltanto penetrata ripetutamente, ma resa molle e, proprio per tecnica, permeabile, o almeno elastica, il rituale decade. Ciò che esce non è più, come si vorrebbe, una ierofania, questa volta fra schermo e pubblico reale, bensì un noioso e annoiato pop-up.

Annie: concentrato di musica e buon umore

Annie: concentrato di musica e buon umore

Dickens sotto LSD. Si può descrivere così “Annie – La felicità è contagiosa“, commedia musicale che uscirà il due luglio al cinema. I toni cinematografici e ideologici su cui si muoverà la pellicola sono chiari fin dalla scena iniziale, quando Annie spiega ai suoi compagni di classe il New Deal di Roosvelt con una performance canora collettiva. Il tutto confezionato con una fotografia luminosissima e canzoni di Jamie Foxx e Cameron Diaz.

La trama è, come detto, di puro stampo Dickensiano: Annie (Quvenzhané Wallis) è un’orfana di Harlem, cresciuta in affidamento dalla Signorina Hannigan (Cameron Diaz), tanto scorbutica quanto alcolizzata. Un giorno la piccola Annie si scontra con il miliardario candidato a sindaco Will Stacks (Jamie Foxx), che su consiglio del suo team, decide di ospitarla in casa per guadagnare consensi elettorali, in una mossa dai confini etici piuttosto labili. Ovviamente, Annie sconvolgerà la vita di tutti.

Risalire alla genesi di “Annie” è piuttosto lungo: prima fumetto, poi film di John Huston, e infine classico di Broadway. La stessa Annie inizialmente bambina dai capelli rossi e ricci è ora una bambina di Harlem. Risulta, quindi, inutile un confronto con le altre trasposizioni e molto più vantaggioso concentrarsi unicamente su questa pellicola. Pellicola che è perfettamente in grado di vivere di vita proprio, staccandosi da tutte le precedenti versioni.

'Annie' comic strip

Il film non ha una vera e propria progressione drammatica. Ma fondamentalmente non vuole nemmeno averla. L’intera vicenda può essere condensata in: le persone incontrano Annie e da profondamente infelici diventano felici, punto. Lo spettatore, dopo dieci minuti dall’inizio, ha già ben chiaro come si svilupperà il tutto. Ma questo è solo parzialmente un difetto: infatti si ha occasione, così, di rilassarsi e di tranquillizzarsi, arrivando alla fine di buon umore e senza particolari scossoni emotivi.

Tutto in “Annie” concorre a determinare questa tranquillità: dalla regia anonima e senza guizzi di Will Gluck a una fotografia luminosa e cool. I personaggi, ridotti a nulla più che stereotipi, non hanno uno spessore. I cattivi non sono mai veramente cattivi o pericolosi, spesso si punta sulla caricatura e sul grottesco per depotenziarli. “Annie” è due ore di buon umore. Ma la cosa importante è che è consapevole di esserlo e non vuole essere diversamente.

La pellicola punta molto su due aspetti: la simpatia della sua protagonista e le canzoni. La piccolissima Quvenzhané Wallis risulta immediatamente adorabile ed è impossibile non affezzionarsi a lei. Ma non si avevano dubbi sulla sua bravura dopo il bellissimo “Re della terra selvaggia”. Anche le canzoni, sempre di stampo ottimistico e vitale, anche quelle in teoria più intimiste, sono orecchiabili e vivaci. Nulla di memorabile, ma comunque godibile.

annie

Dove “Annie” un pochino scade è quando cerca di creare un impianto ideologico sotto di sé, cercando di fare un discorso sull’autorealizzazione e il duro lavoro. Vuoi perché non se ne sentiva particolarmente bisogno dell’ennesimo incensamento del Sogno Americano, anche fuori tempo massimo, vuoi perché affidato alle canzoni di Jamie Foxx mentre un elicottero sorvola New York. E l’effetto è straniante a dir poco.

Cadute di stile a parte, “Annie – La felicità è contagiosa” è un più che dignitoso film estivo per le famiglie. Un’ottima occasione per goderselo potrebbe essere domenica 28 giugno presso la Casa del Cinema di Roma, dove si terrà dalle 11 e 30 l’anteprima gratuita per il pubblico.

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